HomeStoriaLa scoperta dell’inutile – Storia dell’alpinismo sulle Dolomiti

La scoperta dell’inutile – Storia dell’alpinismo sulle Dolomiti

La scoperta dell’inutile – Storia dell’alpinismo sulle Dolomiti

Sarebbe stata considerata pura follia tre secoli fa rischiare la vita per scalare una montagna. Un’attività inutile e anche dannosa. Il Settecento razionalista disprezzava l’ambiente selvaggio delle montagne, le rupi, i ghiacci, la desolazione e i pericoli. Ma sarebbe bastato ricordare con quanto entusiasmo Leonardo da Vinci, in veste di alpinista, due secoli prima aveva scalato vette impegnative come il Momboso (Monte Rosa) raccontandone la sublime bellezza in quadri famosi come “La vergine delle rocce”. Le montagne erano nell’antichità luoghi inquietanti di cui si sarebbe fatto a meno, mentre ora si lasciano docilmente ammirare, addomesticare e talvolta banalizzare. Anche se poi il loro fascino finisce per prevalere e dolcemente stregarci. Come oggi puntualmente avviene nelle Dolomiti. Ma chi sono i personaggi che hanno salito le prime cime premettendo alle Dolomiti di essere conosciute a livello internazionale? Ne abbiamo scelti quattro e ve li presentiamo uno per uno in ordine alfabetico.

John Ball

La conquista del Pelmo, 3168 m, da parte dell’irlandese John Ball (1818-1889) risale al 19 settembre1857. Ball ha già salito il Monte Bianco, visitato l’Atlante marocchino, saggiato il Cervino e si è lasciato tentare da una nobildonna di Bassano del Grappa diventata, l’anno prima, sua moglie. Nell’ascesa al Pelmo lo accompagna la guida Giovan Battista Giacìn (detto “Sgrinfa”) che trenta metri sotto la cima lo sconsiglia di procedere oltre. Ball non lo ascolta e sale a godersi il panorama che include il Grossglockner, le Alpi dell’Otztal e tutte le Dolomiti. E la gloria che si perpetua nei secoli.

Douglas William Freshfield

Douglas William Freshfield (1845-1934) è uno dei più grandi esponenti dell’alpinismo britannico. Freshfield diede un grande contributo alla scoperta delle Dolomiti non solo compiendo innumerevoli scalate, ma promuovendone la frequentazione quale presidente del celebre Alpine Club britannico, capostipite di tutti i club alpini, nonché quale presidente della Reale Società Geografica. 

Paul Grohmann

Protagonista di otto grandi avventure nei Monti Pallidi, il viennese Paul Grohmann (1838-1908) è l’uomo che secondo lo storico Antonio Berti “apre con ambedue le mani i battenti della storia alpinistica di queste nostre montagne divine”. L’elenco delle sue ascensioni include itinerari diversi, dalla Tofana di Ròzes alla Cima Grande di Lavaredo al Sassolungo. Il meglio l’ha dato forse nel 1864 scalando il Sorapiss con la guida cortinese Francesco Lacedelli detto “Checo da Melères”. Fondamentale è considerato il suo contributo alla nascita del turismo nelle Dolomiti.

Georg Winkler

Con il tedesco Georg Winkler (1869-1888) si apre l’epoca dello “sport d’arrampicamento”. Winkler compare di soppiatto, piccolo com’è, nel 1886 nelle Dolomiti calzando pedule fatte di tela di vela con suole di canapa, anziché i consueti scarponi ferrati. Porta con sé un gancio che lancia appeso a una fune di 12 metri. Una volta ancorato il gancio, s’issa acrobaticamente a braccia lungo la corda. Nel 1887 firma il suo capolavoro scalando in prima ascensione la torre più meridionale del Vajolet, che oggi porta il suo nome. Le sue spoglie vengono ritrovate nel 1956 sul Weisshorn dove nel 1888 precipita mentre scala la temibile parete nord.

I grandi degli anni 30 provenienti dalle Dolomiti

Dal punto di vista alpinistico le Dolomiti, che nell’Ottocento erano un territorio in gran parte austriaco, furono esplorate innanzitutto dagli inglesi e dagli austriaci. Non tardarono tuttavia a emergere figure di grandi guide alpine di Cortina, San Martino di Castrozza, Fassa, Val Gardena. L’innalzamento del livello tecnico nelle scalate fra le due guerre è dovuto anche a queste personalità. Ne segnaliamo quattro entrate nella storia o addirittura nella leggenda.

Angelo Dibona

Nato nel 1879, morto nel 1956, Angelo Dibona è ricordato a Cortina da un busto di bronzo dello scultore Augusto Murer e da una lapide che lo indica come “simbolo delle guide ampezzane”. Non gli mancano clienti facoltosi, ma gli otto figli lo costringono a non poche acrobazie anche quando non è in parete. Dibona risolve negli anni Trenta gran parte dei problemi insoluti nell’alpinismo dolomitico di quei tempi. Il suo capolavoro è nel 1910 la perpendicolare Sud ovest del Croz dell’Altissimo: forse la prima via di sesto grado nelle Dolomiti: primato che finora si è sempre attribuito, nel 1925, al percorso tracciato da Emil Solleder tra gli strapiombi della Civetta.

Tita Piaz

Giovanni Battista Piaz (1879-1948) detto Tita, grandissima guida alpina fassana, è conosciuto come il “diavolo delle Dolomiti” per la diabolica abilità che manifesta nelle scalate. Il suo regno è il rifugio Vajolet sotto le celeberrime Torri nel cuore del Catinaccio. Ma la sua personalità non è data solo dalle imprese piccole e grandi nelle Dolomiti. Gli si devono più di cento salvataggi di alpinisti in alta montagna. Maestro di scuola, è un tipaccio considerato sovversivo e i regimi non lo vedono di buon occhio anche se il re Alberto del Belgio gli si affida come cliente affezionato. Muore sessantanovenne per un banale incidente in bicicletta.

Paula Wiesinger

La più vittoriosa arrampicatrice degli anni Trenta nelle Dolomiti è sicuramente Paula Wiesinger (1907-2001). Di origini bavaresi, trapiantata in Val Gardena, è compagna di scalate e nella vita del valoroso alpinista Hans Steger: un sodalizio che avrà un seguito nel campo dell’accoglienza in Val Gardena. La coppia affronta e vince per la direttissima la Cima Una (1928) nelle Dolomiti Orientali e realizza nella bufera qualcosa di simile per difficoltà alla via che Solleder apre in quegli anni in Civetta. Paula è anche una protagonista dello sci azzurro degli anni Trenta vincendo dal 1934 al 196 i Campionati italiani di slalom e discesa.

Giovan Battista Vinatzer

Appena ventenne, il gardenese Giovan Battista Vinatzer (1912-1993) entra nell’empireo dei grandi alpinisti. L’8 agosto del 1932 traccia infatti “con l’incoscienza dell’età” la via diretta dal pulpito Dulfer alla cima della friabile Furchetta, più volte tentata da illustri scalatori come Emil Solleder. Ma è il 1936 il suo anno d’oro: sulla parete sud della Marmolada, Vinatzer traccia in 27 ore di arrampicata con Ettore Castiglioni (“relegato” a malincuore in seconda posizione) una delle più difficili e classiche vie di sesto grado delle Dolomiti. Per vent’anni insuperata.

Evoluzione verso il 6° e il 7°

Molto di frequente nell’evoluzione dell’alpinismo, e non soltanto nelle Dolomiti, si è creduto di aver raggiunto il limite estremo delle possibilità di salita. Salvo poi spostarlo più in su in una continua rincorsa al superamento. Robert Hans Schmitt, vessillifero dell’alpinismo viennese, dopo aver salito nel 1890 il camino che porta il suo nome alla Punta delle Cinque Dita, concluse: “Quest’ascensione è di gran lunga la più difficile che io abbia mai fatto: chi verrà a raccogliere il nostro biglietto da visita?”. Non era stato raggiunto che l’inizio del 4° grado! Pochi anni prima, nel 1981, l’inglese Albert Frederick Mummery, un fuoriclasse, non aveva forse rinunciato a conquistare la vetta del Dente del Gigante per una via di analoghe difficoltà lasciando il famoso biglietto con la scritta “impossibile con mezzi leciti”?

Occorre attendere il 1887 perché la scala delle difficoltà alpinistiche si alzi di un grado. Il merito va ascritto a Georg Winkler e alla sua celeberrima scalata alla Torre del Vajolet che oggi porta il suo nome. Quinto grado! Il quinto fa, però, il suo ingresso ufficiale nelle pareti delle Dolomiti solo nei primi anni del ventesimo secolo. Merito questa volta di Tita Piaz. La sua via al Campanile Toro viene ritenuta nel 1906 la più difficile nelle Dolomiti e forse nelle Alpi per la spaventosa esposizione.

Circa in quegli anni si affaccia nelle Dolomiti l’astro dell’austriaco Paul Preuss e l’alpinismo sembra fare un passo avanti partendo dal principio che i mezzi artificiali, chiodi e martello non vadano usati. Non sarà così, ovviamente. Senza il martello a portata di mano, un grande come Riccardo Cassin avrebbe forse potuto risolvere i problemi delle grandi nord sulle Lavaredo, il Badile e le Grandes Jorasses? Con l’ascensione di Emil Solleder alla Civetta da Nord Ovest su per muraglie immense nasce nel 1925 l’epoca del sesto grado. Di lì a poco il triestino Emilio Comici stupisce il mondo con l’audacia delle sue scalate. Ma il limite estremo delle arrampicate, ammesso che possa esistere, appare lontano. Reinhold Messner nel 1974 teorizza il 7° grado in un libro (Scalando l’impossibile). E invita a non porre limiti alla scala delle difficoltà. Facile a dirsi, ma secondo il re del Brenta Bruno Detassis sui vetri delle finestre solo le mosche riescono a restare attaccate.

Dall’abuso dei chiodi al recupero della libera

Preuss e Messner

L’ultima frontiera dell’alpinismo non può che essere il “free solo” da praticare in parete in solitaria, senza chiodi né corde. Una prodezza? Un folle gioco con la morte? Nel 2002 è il tedesco Alexander Huber a ripercorrere in questo modo la classica via Hasse Brandler sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Ma per trovare le radici di questo genere di scalate occorre tornare alle esperienze dell’austriaco Paul Preuss, grande teorico dell’arrampicata libera. Un modo per giocarsi la pelle com’è purtroppo successo a Preuss?

Reinhold Messner, che a Preuss ha dedicato nel 1986 un’appassionante biografia per i tipi dell’Istituto Geografico de Agostini, taglia corto sostenendo che “la morale non c’entra”, perché il vero arrampicatore è come un artista che non ha bisogno di giustificazioni. Ma siamo sicuri che non si possano considerare artisti anche gli apritori, a suon di chiodi e staffe, di vie “a goccia d’acqua” di moda prima della rivoluzione degli anni Ottanta? Orizzontarsi nelle diverse forme di arrampicata non è facile. Per piantare i chiodi classici con il martello ci vogliono le fessure, mentre per forzare gli spit nella viva roccia è indispensabile il trapano a batteria. Un lavoro da carpentieri, l’opposto della filosofia di Preuss, il cavaliere della montagna la cui concezione del salire una parete era di una tale semplicità che oggi si potrebbe definire integralista.

Preuss sostenne per tutta la sua breve esistenza l’opportunità di non dover violare la roccia con l’uso o l’abuso di chiodi. Tesi confutata, come noto, dall’esimio chiodatore Tita Piaz. Da una parte il massimo del rischio, dall’altra il suo contrario o quasi. Ma è probabile che l’eccesso di protezioni abbia tolto fascino all’alpinismo ponendo i presupposti per quelle attrezzatissime “piste” da percorrere a cuor leggero a quota ottomila e favorendo l’inesorabile prevalere dell’approccio sportivo e consumistico. Nessuno più di Messner può oggi provare avversione verso questa deriva dell’alpinismo. Ne ha facoltà lui che, prima di diventare il re degli ottomila, si è messo in luce come sostenitore della “libera” e del settimo grado abbattendo il vecchio muro del sesto con ripetizioni lampo di vie temutissime.

L’alpinismo oggi. L’estremo e la velocità

Se ci si chiede quali siano i volti dell’alpinismo di oggi, la risposta ci conduce dritti alla faccia di Ueli Steck, la Swiss machine capace di record sbalorditivi di velocità alla famigerata nord Eiger. E ci conduce anche a quella altrettanto simpatica di Alex Honnold che in Youtube si mostra sempre pensieroso e indifferente mentre come una lucertola striscia su placche levigatissime con sotto abissi inguardabili per chi soffre di vertigini.

Entrambi, Ueli e Alex, sono tendenzialmente solitari, entrambi giovani. Sono del loro stampo gli alpinisti che oggi dettano legge? E chi sono questi giovani? Leggendo l’edizione 2016 di “Up”, annuario di alpinismo europeo pubblicato da Versante Sud ne scopriamo diversi. Eugenio Pesci e Ivano Zanetti (più di un secolo in due) raccontano di avere traslocato dalle Grigne al Verdon per tracciare la via “Due poveri vecchi” nelle gole del Verdon. L’intrepido Heinz Mariacher, con l’inseparabile Luisa Iovane, racconta della sua via “Tempi moderni” in Marmolada. E poi ecco venirci incontro il mitico Pierluigi Bini detto “il vecchiaccio” che quarant’anni fa dicono entrato nel mito sulle placche del Corno Piccolo al Gran Sasso. Dimenticavamo: Manolo, classe 1958 racconta in “Up” le sue estenuanti salite sulle pareti del Totoga “quintessenza della cattiveria di una montagna dolomitica”. Era il 1981.

Ma questo, signori, è anche l’alpinismo di oggi. Si gioca a chi è più bravo, più veloce, più atletico o più spavaldo. L’arrampicata, sai che novità, resta un modo di salire le montagne e uno stile di vita. O, se si preferisce, un’avventura dello spirito prima ancora che del corpo, da esibire in Facebook. E per questo motivo l’aspetto relativo alla sicurezza passa in secondo ordine e purtroppo se ne vedono le conseguenze quando gli sbalzi di temperatura dovuti alle anomalie climatiche rendono precario il manto nevoso e più fragili del previsto le cascate di ghiaccio prese ormai d’assalto anche da folle domenicali.

Scritto da Roberto Serafin

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