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Dolomiti per l’anima

Dolomiti per l’anima

Ritratto inusuale di un regno ai confini del cielo 

Dalle creste tondeggianti che sovrastano Bressanone, contemplo la successione di muraglie turrite delle Odle, al margine settentrionale delle Dolomiti. Mi trovo nel cuore dell’inverno a 2500 metri di quota: eppure sto camminando su macchie d’erba che spuntano da pochi centimetri di neve. In queste condizioni, è naturale percorrere le Dolomiti invernali camminando. Ho deciso di farlo seguendo l’Alta Via n. 2 o “delle leggende” – percorso tradizionalmente estivo -, che in casi come questo offre un’insolita occasione per immergersi nella meraviglia dei castelli di dolomia quando silenzio, solitudine, gelo e sole radente trasformano parte di questo regno in una successione di spazi remoti e fuori dal tempo. E fin dai primi giorni, cercando sentieri sotto la poca neve per valloni e forcelle, varcando sipari di pietra splendenti di veli bianchi quali sono le Odle, nel rivelarsi di nuovi  mondi come il deserto altopiano del Puez, pernottando nei disabitati locali invernali dei rifugi in quota, riconosco sì le sagome delle Dolomiti di sempre, ma quasi spostate in un’altra era, liberate dai vincoli umani. È una condizione in cui occorre interpretare di persona le superfici su cui si posano i passi: spostarsi dove la neve tiene meglio o dove non c’è, evitare tratti ghiacciati, scoprire la possibile presenza di accumuli da vento, talvolta insidiosi. L’inevitabile incrocio con i ramificati impianti delle stazioni sciistiche e con le piste innevate artificialmente – come attorno al Gruppo del Sella – mi ricorda che la cultura di oggi non vuol credere che il movimento consapevole e prudente possa essere imparato e messo in pratica da molti. Nelle località turistiche si è rinunciato a trasmettere conoscenza. Eppure, se si insegna ai turisti a scivolare, non è logico insegnare prima a camminare?

Guadagnato l’altopiano del Sella ritorno in uno spazio-tempo arcaico, come sul Puez, e lo attraverso, lasciando le mie orme leggere nel deserto ondulato di pietre e neve per innalzarmi fino in cima al Piz Boè; dai vapori gelidi che galleggiano attorno ai confini sospesi dell’antico atollo corallino emerge la Marmolada, grande isola da costeggiare tra le catene del Padon e gli alti ripiani di Cima Bocche, ricordi di vulcani cresciuti nel mar tropicale. Continua a stupirmi il vuoto d’uomini, dentro una bellezza così favolosa, appena sopra all’affollato saliscendi dei caroselli artificiali. Sono convinto che i camosci che scorgo numerosi sul Padon, tra torrioni rosso-nerastri, o le pernici bianche che vedo zampettare nell’alta Valle di Contrin, o le nocciolaie che volano nella luce tra le cime dei pini cembri, stiano quassù non solo perché “è il loro habitat”, ma perché il loro senso della bellezza non è scosso e deviato come nella nostra mente. La muraglia settentrionale delle Pale di San Martino è attraente, ma la stagione consiglia un aggiramento oltre il Passo Rolle, per poi inerpicarmi fino al loro sconfinato deserto dolomitico. In due giorni sull’altopiano vivo esperienze opposte: la nebbia fitta sulla neve, o whiteout, che vuol dire l’avventura del vagabondaggio a tentoni, e l’azzurro assoluto sulla cima della Fradusta, con l’immensità delle Dolomiti meridionali attorno a me. Le Vette Feltrine, ultima catena verso il termine del cammino, sono impervie e scoscese, e invitano a diversi aggiramenti prima di costeggiare le conche glacio-carsiche delle Buse, anfiteatri sospesi sul mondo pianeggiante. Le Dolomiti digradano a valle: mi sento grato per la conoscenza che i mille volti della materia vivente mi hanno regalato in questi giorni; e mi accompagna il pensiero dell’esploratore polare norvegese Fridtjof Nansen su come approcciare la Terra: «Significa semplicemente lavorare assieme alle forze della natura, anziché contro di esse».

Testi e foto di Franco Michieli

credits:
foto1: Cimon della Pala, Vezzana e Bureloni salendo alla Fradusta
foto2: Alpi Feltrine, Val Belluna e Dolomiti Bellunesi.

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